mercoledì 27 maggio 2009

L’obbedienza alle regole del bene comune e della vita comune può sanare una società come pure l’io stesso dalla superbia di essere al centro del mondo


CICLO DI CATECHESI SUI GRANDI SCRITTORI DELLA CHIESA DI ORIENTE ED OCCIDENTE NEL MEDIOEVO

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L’UDIENZA GENERALE, 27.05.2009

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, riprendendo il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su San Teodoro Studita.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

San Teodoro Studita

Cari fratelli e sorelle!

Il Santo che oggi incontriamo, san Teodoro Studita, ci porta in pieno medioevo bizantino, in un periodo dal punto di vista religioso e politico piuttosto turbolento.
San Teodoro nacque nel 759 in una famiglia nobile e pia: la madre, Teoctista, e uno zio, Platone, abate del monastero di Sakkudion in Bitinia, sono venerati come santi.
Fu proprio lo zio ad orientarlo verso la vita monastica, che egli abbracciò all’età di 22 anni. Fu ordinato sacerdote dal patriarca Tarasio, ma ruppe poi la comunione con lui per la debolezza dimostrata nel caso del matrimonio adulterino dell’imperatore Costantino VI. La conseguenza fu l’esilio di Teodoro, nel 796, a Tessalonica. La riconciliazione con l’autorità imperiale avvenne l’anno successivo sotto l’imperatrice Irene, la cui benevolenza indusse Teodoro e Platone a trasferirsi nel monastero urbano di Studios, insieme alla gran parte della comunità dei monaci di Sakkudion, per evitare le incursioni dei saraceni.
Ebbe così inizio l’importante “riforma studita”.

La vicenda personale di Teodoro, tuttavia, continuò ad essere movimentata. Con la sua solita energia, divenne il capo della resistenza contro l’iconoclasmo di Leone V l’Armeno, che si oppose di nuovo all’esistenza di immagini e icone nella Chiesa. La processione di icone organizzata dai monaci di Studios scatenò la reazione della polizia. Tra l’815 e l’821, Teodoro fu flagellato, incarcerato ed esiliato in diversi luoghi dell’Asia Minore. Alla fine poté tornare a Costantinopoli, ma non nel proprio monastero. Egli allora si stabilì con i suoi monaci dall’altra parte del Bosforo. Morì, a quanto pare, a Prinkipo, l’11 novembre 826, giorno in cui il calendario bizantino lo ricorda. Teodoro si distinse nella storia della Chiesa come uno dei grandi riformatori della vita monastica e anche come difensore delle sacre immagini durante la seconda fase dell’iconoclasmo, accanto al Patriarca di Costantinopoli, san Niceforo. Teodoro aveva compreso che la questione della venerazione delle icone chiamava in causa la verità stessa dell’Incarnazione. Nei suoi tre libri Antirretikoi (Confutazioni), Teodoro fa un paragone tra i rapporti eterni intratrinitari, dove l’esistenza di ciascuna Persona divina non distrugge l’unità, e i rapporti tra le due nature in Cristo, le quali non compromettono, in Lui, l’unica Persona del Logos.
E argomenta: abolire la venerazione dell’icona di Cristo significherebbe cancellare la sua stessa opera redentrice, dal momento che, assumendo la natura umana, l’invisibile Parola eterna è apparsa nella carne visibile umana e in questo modo ha santificato tutto il cosmo visibile. Le icone, santificate dalla benedizione liturgica e dalle preghiere dei fedeli, ci uniscono con la Persona di Cristo, con i suoi santi e, per mezzo di loro, con il Padre celeste e testimoniano l’entrare della realtà divina nel nostro cosmo visibile e materiale.

Teodoro e i suoi monaci, testimoni di coraggio al tempo delle persecuzioni iconoclaste, sono inseparabilmente legati alla riforma della vita cenobitica nel mondo bizantino.

La loro importanza già si impone per una circostanza esterna: il numero. Mentre i monasteri del tempo non superavano i trenta o quaranta monaci, dalla Vita di Teodoro sappiamo dell’esistenza complessivamente di più di un migliaio di monaci studiti. Teodoro stesso ci informa della presenza nel suo monastero di circa trecento monaci; vediamo quindi l’entusiasmo della fede che è nato nel contesto di questo uomo realmente informato e formato dalla fede medesima. Tuttavia, più che il numero, si rivelò influente il nuovo spirito impresso dal fondatore alla vita cenobitica. Nei suoi scritti egli insiste sull’urgenza di un ritorno consapevole all’insegnamento dei Padri, soprattutto a san Basilio, primo legislatore della vita monastica e a san Doroteo di Gaza, famoso padre spirituale del deserto palestinese.
L’apporto caratteristico di Teodoro consiste nell’insistenza sulla necessità dell’ordine e della sottomissione da parte dei monaci. Durante le persecuzioni questi si erano dispersi, abituandosi a vivere ciascuno secondo il proprio giudizio. Ora che era stato possibile ricostituire la vita comune, bisognava impegnarsi a fondo per tornare a fare del monastero una vera comunità organica, una vera famiglia o, come dice lui, un vero “Corpo di Cristo”. In tale comunità si realizza in concreto la realtà della Chiesa nel suo insieme.

Un’altra convinzione di fondo di Teodoro è questa: i monaci, rispetto ai secolari, assumono l’impegno di osservare i doveri cristiani con maggiore rigore ed intensità.

Per questo pronunciano una speciale professione, che appartiene agli hagiasmata (consacrazioni), ed è quasi un “nuovo battesimo”, di cui la vestizione è il simbolo. Caratteristico dei monaci, invece, rispetto ai secolari, è l’impegno della povertà, della castità e dell’obbedienza.
Rivolgendosi ai monaci, Teodoro parla in modo concreto, talvolta quasi pittoresco, della povertà, ma essa nella sequela di Cristo è dagli inizi un elemento essenziale del monachesimo e indica anche una strada per noi tutti.

La rinuncia al possesso delle cose materiali, l’atteggiamento di libertà da esse, come pure la sobrietà e semplicità valgono in forma radicale solo per i monaci, ma lo spirito di tale rinuncia è uguale per tutti. Infatti non dobbiamo dipendere dalla proprietà materiale, dobbiamo invece imparare la rinuncia, la semplicità, l’austerità e la sobrietà. Solo così può crescere una società solidale e può essere superato il grande problema della povertà di questo mondo.

Quindi in questo senso il radicale segno dei monaci poveri indica sostanzialmente anche una strada per noi tutti. Quando poi espone le tentazioni contro la castità, Teodoro non nasconde le proprie esperienze e dimostra il cammino di lotta interiore per trovare il dominio di se stessi e così il rispetto del proprio corpo e di quello dell’altro come tempio di Dio.

Ma le rinunce principali sono per lui quelle richieste dall’obbedienza, perché ognuno dei monaci ha il proprio modo di vivere e l’inserimento nella grande comunità di trecento monaci implica realmente una nuova forma di vita, che egli qualifica come il “martirio della sottomissione”.
Anche qui i monaci danno solo un esempio di quanto sia necessario per noi stessi, perché, dopo il peccato originale, la tendenza dell’uomo è fare la propria volontà, il principio primo è la vita del mondo, tutto il resto va sottomesso alla propria volontà.

Ma in questo modo, se ognuno segue solo se stesso, il tessuto sociale non può funzionare. Solo imparando ad inserirsi nella comune libertà, condividere e sottomettersi ad essa, imparare la legalità, cioè la sottomissione e l’obbedienza alle regole del bene comune e della vita comune, può sanare una società come pure l’io stesso dalla superbia di essere al centro del mondo.

Così san Teodoro ai suoi monaci e in definitiva anche a noi, con fine introspezione, aiuta a capire la vera vita, a resistere alla tentazione di mettere la propria volontà come somma regola di vita e di conservare la vera identità personale - che è sempre una identità insieme con gli altri - e la pace del cuore.

Per Teodoro Studita una virtù importante al pari dell’obbedienza e dell’umiltà è la philergia, cioè l’amore al lavoro, in cui egli vede un criterio per saggiare la qualità della devozione personale: colui che è fervente negli impegni materiali, che lavora con assiduità, egli argomenta, lo è anche in quelli spirituali. Non ammette perciò che, sotto il pretesto della preghiera e della contemplazione, il monaco si dispensi dal lavoro, anche dal lavoro manuale, che in realtà è, secondo lui e secondo tutta la tradizione monastica, il mezzo per trovare Dio.

Teodoro non teme di parlare del lavoro come del “sacrificio del monaco”, della sua “liturgia”, addirittura di una sorta di Messa attraverso la quale la vita monastica diventa vita angelica. E proprio così il mondo del lavoro va umanizzato e l’uomo attraverso il lavoro diventa più se stesso, più vicino a Dio.

Una conseguenza di questa singolare visione merita di essere ricordata: proprio perché frutto di una forma di “liturgia”, le ricchezze ricavate dal lavoro comune non devono servire alla comodità dei monaci, ma essere destinate all’aiuto dei poveri. Qui possiamo tutti cogliere la necessità che il frutto del lavoro sia un bene per tutti. Ovviamente, il lavoro degli “studiti” non era soltanto manuale: essi ebbero una grande importanza nello sviluppo religioso-culturale della civiltà bizantina come calligrafi, pittori, poeti, educatori dei giovani, maestri di scuole, bibliotecari.

Pur esercitando un’attività esterna vastissima, Teodoro non si lasciava distrarre da ciò che considerava strettamente attinente alla sua funzione di superiore: essere il padre spirituale dei suoi monaci. Egli sapeva quale influsso decisivo avevano avuto nella sua vita sia la buona madre che il santo zio Platone, da lui qualificato col significativo titolo di “padre”. Esercitava perciò nei confronti dei monaci la direzione spirituale. Ogni giorno, riferisce il biografo, dopo la preghiera serale si poneva davanti all’iconostasi per ascoltare le confidenze di tutti. Consigliava pure spiritualmente molte persone fuori dello stesso monastero. Il Testamento spirituale e le Lettere mettono in rilievo questo suo carattere aperto e affettuoso, e mostra come dalla sua paternità sono nate vere amicizie spirituali in ambito monastico e anche fuori.

La Regola, nota con il nome di Hypotyposis, codificata poco dopo la morte di Teodoro, fu adottata, con qualche modifica, sul Monte Athos, quando nel 962 sant’Atanasio Athonita vi fondò la Grande Lavra, e nella Rus’ di Kiev, quando all’inizio del secondo millennio san Teodosio la introdusse nella Lavra delle Grotte. Compresa nel suo significato genuino, la Regola si rivela singolarmente attuale. Vi sono oggi numerose correnti che insidiano l’unità della fede comune e spingono verso una sorta di pericoloso individualismo spirituale e di superbia spirituale. E’ necessario impegnarsi nel difendere e far crescere la perfetta unità del Corpo di Cristo, nella quale possono comporsi in armonia la pace dell’ordine e le sincere relazioni personali nello Spirito.

E’ forse utile riprendere alla fine alcuni degli elementi principali della dottrina spirituale di Teodoro. Amore per il Signore incarnato e per la sua visibilità nella Liturgia e nelle icone. Fedeltà al battesimo e impegno a vivere nella comunione del Corpo di Cristo, intesa anche come comunione dei cristiani fra di loro. Spirito di povertà, di sobrietà, di rinuncia; castità, dominio di sé stessi, umiltà ed obbedienza contro il primato della propria volontà, che distrugge il tessuto sociale e la pace delle anime. Amore per il lavoro materiale e spirituale. Amicizia spirituale nata dalla purificazione della propria coscienza, della propria anima, della propria vita. Cerchiamo di seguire questi insegnamenti che realmente ci mostrano la strada della vera vita.

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